Montagne. Valli. Pianure.
E poi ancora fiumi e valli e di nuovo le pianure.
E sopra a tutto il ghiaccio. Quell’infinita distesa vetrosa e baluginante.
Mano rapace che ingloba tra i suoi artigli tutto ciò che incontra sul suo cammino.
Avide dita di cristallina cupidigia capaci di strappare e divellere e lacerare e rompere.
Di separare e smembrare e spaccare.
E poi trascinare e spingere e portare lontano.
Era iniziato così. Così si era allontanato dalla sua terra natìa. Da quelle montagne di maestosa imponenza tra cui era nato. Così era cominciato il suo lungo viaggio.
E così le montagne e le valli e le pianure. E poi ancora i fiumi e le valli e le pianure.
E quei lunghi interminabili cammini e le corse che lo precipitavano giù da ripide discese e le tradotte attraverso il turbinìo delle correnti.
E a circondarlo le acque del mare. Tanto, sconfinato mare. Immensa superficie di cristallina trasparenza, bacino di infinita solitudine e di inestinguibili silenzi che lo accoglieva nel suo eterno abbraccio. Infinita distesa vetrosa e baluginante che ingloba tutto ciò che incontra sul suo cammino. Capace di prenderti nel suo abbraccio. E di trascinare e spingere. E di portare lontano.
Così era arrivato a quelle sponde. In parte trascinato dalle correnti, in parte nuotando nell’acqua gelida, aggredito dalla fame e dalla stanchezza. Fino a quando aveva intravisto la terraferma, le coste di un luogo tanto lontano da casa, ma in cui avrebbe potuto trovare ristoro.
Qualcosa da mangiare. Un rifugio.
Ma ad attenderlo, oltre quella coltre di nebbia che tutto avvolgeva, soltanto i fucili puntanti. Tanti. Troppi per riuscire a scappare. E poi c’era la stanchezza. Quell’immensa stanchezza che ormai si era impossessata di lui e gli impediva di correre, di provare a nascondersi. E dove poi? Ovunque non c’erano che rocce e brughiera. E dietro soltanto il mare. Tanto, troppo mare.
Così l'orso si fermò, liberando nel vuoto aperto alle sue spalle lo sguardo perso in orizzonti di libertà. Gli occhi puntati su paesaggi lontani, a farsi spazio tra i ricordi di un’infanzia libera e felice consumata tra le distese sconfinate dei ghiacci della Groenlandia. E spararono i fucili. E spararono ancora. Lasciando, senza emozione alcuna, la loro firma di sangue su questo nuovo crimine della stupidità umana.
E poi ancora fiumi e valli e di nuovo le pianure.
E sopra a tutto il ghiaccio. Quell’infinita distesa vetrosa e baluginante.
Mano rapace che ingloba tra i suoi artigli tutto ciò che incontra sul suo cammino.
Avide dita di cristallina cupidigia capaci di strappare e divellere e lacerare e rompere.
Di separare e smembrare e spaccare.
E poi trascinare e spingere e portare lontano.
Era iniziato così. Così si era allontanato dalla sua terra natìa. Da quelle montagne di maestosa imponenza tra cui era nato. Così era cominciato il suo lungo viaggio.
E così le montagne e le valli e le pianure. E poi ancora i fiumi e le valli e le pianure.
E quei lunghi interminabili cammini e le corse che lo precipitavano giù da ripide discese e le tradotte attraverso il turbinìo delle correnti.
E a circondarlo le acque del mare. Tanto, sconfinato mare. Immensa superficie di cristallina trasparenza, bacino di infinita solitudine e di inestinguibili silenzi che lo accoglieva nel suo eterno abbraccio. Infinita distesa vetrosa e baluginante che ingloba tutto ciò che incontra sul suo cammino. Capace di prenderti nel suo abbraccio. E di trascinare e spingere. E di portare lontano.
Così era arrivato a quelle sponde. In parte trascinato dalle correnti, in parte nuotando nell’acqua gelida, aggredito dalla fame e dalla stanchezza. Fino a quando aveva intravisto la terraferma, le coste di un luogo tanto lontano da casa, ma in cui avrebbe potuto trovare ristoro.
Qualcosa da mangiare. Un rifugio.
Ma ad attenderlo, oltre quella coltre di nebbia che tutto avvolgeva, soltanto i fucili puntanti. Tanti. Troppi per riuscire a scappare. E poi c’era la stanchezza. Quell’immensa stanchezza che ormai si era impossessata di lui e gli impediva di correre, di provare a nascondersi. E dove poi? Ovunque non c’erano che rocce e brughiera. E dietro soltanto il mare. Tanto, troppo mare.
Così l'orso si fermò, liberando nel vuoto aperto alle sue spalle lo sguardo perso in orizzonti di libertà. Gli occhi puntati su paesaggi lontani, a farsi spazio tra i ricordi di un’infanzia libera e felice consumata tra le distese sconfinate dei ghiacci della Groenlandia. E spararono i fucili. E spararono ancora. Lasciando, senza emozione alcuna, la loro firma di sangue su questo nuovo crimine della stupidità umana.
Nessun commento:
Posta un commento