http://archiviostorico.corriere.it/1993/gennaio/05/gli_orologi_battessero_tempo_della_co_0_9301052468.shtml
Gianni aprì gli occhi infastidito dalla lama di sole che penetrava attraverso una fessura della persiana abbassata.
“Che strano! – pensò – di solito in questa stanza non comincia ad entrare luce prima delle nove del mattino”.
Si alzò a sedere sul letto e tentò di leggere l’orologio che portava al polso. Segnava le nove e un quarto. Sarebbe dovuto essere in ufficio già da un’ora. Balzò fuori dal letto con un salto, accese la lampada che stava sul comodino e afferrò la sveglia. Segnava le sette.
“Maledetto aggeggio – gridò fuori di sé – te ne stai tutto il giorno senza fare niente e ti permetti pure di scordarti di chiamarmi per andare a lavorare!”.
Corse in bagno a lavarsi, si infilò in fretta e furia un paio di pantaloni e una camicia e corse fuori senza neanche fermarsi a prendere il solito caffè.
“Accidenti – pensava mentre si affrettava a prendere l’autobus all’angolo della strada – e adesso che cosa racconto al principale? Proprio stamattina che c’era tutto quel lavoro da sbrigare”.
Mentre attraversava la strada per raggiungere la fermata dell’autobus fu investito da uno sciame di ragazzini che, carichi delle loro cartelle, correvano festosi e urlanti verso i giardini pubblici.
“Ehi ragazzi – gridò Gianni – che succede, non c’è scuola stamattina?” e così dicendo afferrò uno di loro per il bavero del cappotto.
“Pare proprio di no, signore – rispose tutto compito lo scolaretto – oggi ci siamo presentati a scuola come tutte le mattine ma il bidello non è venuto ad aprire. Così abbiamo pensato che forse c’è qualche sciopero e si sono dimenticati di avvisarci”.
“Oibò – pensò Gianni mentre il bambinetto si divincolava dalla presa e correva a raggiungere gli altri – vuoi vedere che anche il bidello della scuola stamattina ha avuto problemi con la sveglia?”.
Guardò nuovamente il suo orologio. Adesso segnava le dieci e mezza.
Ma non era possibile! Non poteva essere trascorso così tanto tempo da quando era uscito di casa.
Probabilmente il suo vecchio orologio cominciava a sentire il peso degli anni e stava davvero dando i numeri.
Decise allora di chiedere l’ora ad un passante. Proprio in quel momento gli venne incontro con passo malfermo un vecchietto con le braccia colme di sacchetti.
“Mi scusi tanto – gli disse Gianni – saprebbe dirmi che ore sono precisamente?”.
“Le dirò – gli rispose di rimando l’anziano signore – non ci capisco nulla. Il mio orologio segna le undici e dieci. Ma non è proprio possibile”.
“Come – pensò Gianni tra sé – un’ora diversa ancora?”.
“Mi scusi se insisto – fece rivolto al vecchietto – perché dice che non è possibile?”.
“Vede – rispose lui – sono più di dieci anni che tutte le mattine vado al parco a dare da mangiare ai piccioni e loro si sono talmente abituati a me che ogni giorno alla stessa ora precisa si presentano alla stessa panchina. Ogni giorno alla stessa ora precisa, capisce? – ripetè per essere sicuro di essere stato compreso – non c’è di che stupirsi, si sa che gli uccelli hanno come un orologio svizzero in quella loro piccola testa”.
“Si, si d’accordo – disse Gianni che già cominciava a spazientirsi per tutte quelle stranezze – ma allora dove sta il problema?”.
“Il problema sta nel fatto, caro lei, che questa mattina li ho aspettati invano e loro non si sono presentati. Non capisco, non capisco proprio”.
E così dicendo riprese la sua strada continuando a scuotere sconsolatamente la testa.
Gianni non fece a tempo a considerare quell’ultimo avvenimento che le campane del campanile della chiesa del quartiere cominciarono a battere l’ora.
Don, don, don… dodici rintocchi. Dodici? Ma non era ancora mezzogiorno!
“Questo è veramente troppo! – esclamò al colmo dell’esasperazione – ma si può sapere che sta succedendo?”.
In quel momento vide passare l’autobus diretto al centro. Gianni fece di corsa l’ultimo tratto di strada che lo separava dalla fermata e fece in tempo per un pelo ad afferrare il veicolo per la maniglia e ad intrufolarsi attraverso lo sportello che si stava chiudendo.
Quello doveva di certo essere l’autobus delle nove e mezza… o forse quello delle dieci, o delle undici meno un quarto… Oh, insomma. Ci rinunciava. Qualunque ora fosse l’importante era riuscire a raggiungere la città per vederci chiaro.
Appena giunto in centro si rese subito conto che anche lì stava succedendo qualcosa di anormale.
Ovunque regnava la confusione. Le edicole erano chiuse perché i giornali non erano arrivati in orario, la gente correva disorientata da un marciapiede all’altro, c’era chi si vedeva sbattere in faccia la porta di un negozio che stava chiudendo, chi attendeva invano che un altro aprisse.
Alla stazione, poi, la situazione era ancora più tragica, treni continuavano ad arrivare e a partire senza essere annunciati, mentre l’altoparlante avvisava i viaggiatori dell’arrivo di altri che, invece, non si facevano vedere.
Gianni aveva ormai rinunciato all’idea di andare in ufficio per quella mattina (o per quel pomeriggio? Non ci capiva più nulla).
Si diresse, allora, con passo deciso da un orologiaio. Forse lui avrebbe saputo spiegare cosa diavolo stava succedendo.
Proprio lì di fronte, infatti, una vetrina grandissima e illuminata da numerosi faretti colorati dominava un ampio tratto di strada.
Esposti vi si potevano ammirare tutti gli ultimi modelli di Swach appena messi in commercio e poi pendoli e orologi di tutti i tipi e dalle fogge più strane, orologi da mettere in cucina, in salotto, in entrata, addirittura nel bagno. Orologi da regalo, adatti per un compleanno o per un matrimonio, studiati per soddisfare tutti i gusti e tutte le età.
Gianni spinse la porta di ingresso e fece per entrare nel fantastico negozio ma fu subito investito da un coro di pendole, sveglie, campanelle e suonerie varie che andavano all’impazzata e a ritmo continuo, così che appena alcune smettevano di battere un’ora subito altre cominciavano a suonarne un’altra.
Gianni cercò di superare quel muro di suoni assordanti e gridò in direzione del povero commesso che non sapeva più da che parte correre per farle smettere.
“Si può sapere che sta succedendo? C’è tutta la città in subbuglio e qui sembra sia arrivato il Giudizio Universale!”.
“Cosa vuole che le dica – gridò di rimando il commesso che ora tentava inutilmente di tapparsi le orecchie alla meglio per non rischiare di rimanere sordo – è da stamattina che si comportano così. Ogni ingranaggio ha preso a funzionare ad un ritmo diverso da quello di tutti gli altri, così ognuno va avanti per proprio conto”.
Gianni decise che per mantenere l’integrità dei suoi timpani doveva assolutamente uscire al più presto da quel posto.
Cercò di salutare il commesso ma già quello si era rimesso al lavoro per cercare di bloccare le suonerie e comunque non lo avrebbe sentito lo stesso, per cui uscì in fretta dal negozio preoccupandosi di chiudere bene la porta dietro di sé.
Era tutto inutile, così facendo non sarebbe mai venuto a capo di nulla.
Non sarebbe servito a niente rivolgersi a qualche altro commerciante per cercare di capirci qualcosa, probabilmente erano tutti nelle stesse condizioni.
Continuò a camminare sconsolatamente cercando di pensare ad una soluzione che gli permettesse di venire fuori da quella babele temporale.
Continuando a camminare, senza quasi rendersene conto, si lasciò alle spalle il centro cittadino e cominciò a dirigersi verso la parte vecchia della città. Era talmente immerso nei suoi pensieri che non si rese conto di essere entrato in un vecchio quartiere che non aveva mai visto.
S’infilò in una viuzza sconnessa e strettissima.
Le pareti delle case, addossate l’una all’altra, impedivano quasi del tutto ai raggi del sole di penetrare, così che, nonostante fosse ancora pieno giorno , lì era quasi buio.
Girò l’angolo e si ritrovò di fronte ad una porticina piccola e contorta per l’umidità. Una finestra fungeva da vetrina ad un piccolo negozio e attraverso il vetro polveroso e ormai quasi del tutto opaco di intravedevano esposti alcuni vecchi orologi.
“E’ una vecchia bottega di orologiaio” si rese subito conto Gianni.
E senza pensarci oltre decise di entrare. Infilò la testa attraverso la porticina.
“E’ permesso?” chiese quasi in un sussurro.
Quell’aria pesante di polvere e di umidità, gli oggetti che dall’aspetto dovevano essere certo molto antichi, gli davano l’impressione di aver violato un luogo sacro.
“C’è nessuno?” si azzardò a chiedere con un tono un po’ più alto.
Da dietro il grosso bancone roso dai tarli che occupava quasi tutto lo spazio del piccolo locale, si affacciò la testa di un omino.
Sì, non si poteva definirlo in altro modo. Anzi, pareva quasi un folletto con i suoi capelli bianchissimi, i baffetti pure candidi e ordinati, gli occhietti piccoli e furbi – svegli per l’età che l’ometto dimostrava – e che guardavano da dietro le spesse lenti degli occhialini poggiati sulla punta del grosso naso.
Gianni ristette un attimo in silenzio. Non sapeva neppure lui che cosa lo aveva spinto ad entrare lì dentro e ora che c’era non era più in grado di formulare alcuna domanda.
Il vecchio orologiaio raddrizzò completamente la schiena e poggiò sul banco il cipollone che stava riparando e che nella sua minuscola mano appariva veramente enorme e guardò Gianni lanciandogli un’occhiata quasi compiaciuta da sopra le lenti degli occhiali che gli penzolavano dal naso.
Pareva quasi che si divertisse ad osservare il disagio del povero giovane che cercava invano le parole per spiegare il motivo che l’aveva spinto ad entrare lì dentro.
Il vecchietto sorrise.
“Credo di sapere perché lei si è rivolto a me, – gli disse – desidera sapere che cosa sta succedendo agli orologi di tutta la città e del mondo intero. Perché lei forse ancora non lo sa, ma lo stesso sta accadendo anche in tutto il resto del mondo”.
“Beh, sì. Veramente era proprio quello che ero venuto a chiederle” rispose quasi balbettando Gianni che ormai non sapeva più di che stupirsi.
“Vede, caro signore – disse il vecchio orologiaio – al giorno d’oggi la gente non sa far altro che correre avanti e indietro, prendere appuntamenti e darne in continuazione. E’ talmente abituata a servirsi del tempo che ha disimparato ad apprezzarlo pienamente. Non sa più calcolare il valore di una giornata, di un’ora, di un singolo minuto”.
“Ogni frazione del giorno – continuò l’anziano ometto – è stata svuotata di ogni significato e viene considerata solo perché in quella data ora si deve andare dal parrucchiere o c’è il notaio che aspetta per una firma o ancora perché non presentarsi in orario in quel dato posto ci può far perdere del denaro. Anche gli orologi, che sono stati creati per aprire gli occhi degli uomini sul valore del tempo, perché fosse quasi possibile vederlo, maneggiarlo, insomma, perché diventasse parte concreta della vita delle persone, da figli del tempo quali erano, sono ora diventati aridi strumenti nelle mani dell’uomo che se ne serve per condurre una vita senza senso”.
L’ometto fece una breve pausa di silenzio, poi continuò.
“Come un qualsiasi altro oggetto, frutto e strumento della vanità del mondo, gli orologi sono stati abbelliti, infiocchettati, colorati, ingranditi, rimpiccioliti. Ridicolizzati, insomma.
Sono diventati oggetti da mostra. Vengono mostrati con vanità al polso, al collo, alle dita delle mani, vengono persino portati alle orecchie, dove più che in qualunque altra situazione stanno a dimostrare come sia andato perduto il loro vero significato e abbandonato il loro vero scopo. Si è, dunque, fatto di un oggetto dall’enorme valore un vero e proprio pezzo da baraccone.
E così gli orologi, questi fedeli figli del Tempo, hanno deciso di ribellarsi, non vogliono più farsi complici di queste vuote esistenze ma tornare ad aiutare il loro Padre a recuperare il vero significato del Tempo”.
Gianni guardò il vecchietto un po’ perplesso.
In effetti, quell’ometto non aveva tutti i torti. Anche lui per prima cosa si era preoccupato di come avrebbe fatto con tutti i suoi impegni. Non aveva pensato nemmeno per un minuto a quello che avrebbe perso se non ci fosse stato più modo di disporre del tempo come di un bene concreto.
“Lei ha ragione signor orologiaio – disse timoroso – ma come farà la gente d’ora in poi?”.
“Non si preoccupi – rispose di rimando il vecchietto con tono comprensivo – non c’è da aspettarsi che le persone capiscano subito. Anzi, c’è il pericolo che, mantenendo questo stato di cose troppo a lungo, il popolo, esacerbato, se la prenda ancora di più e trovi in breve tempo un altro sistema per maltrattare questo grande bene. Tanto si sa che se le vie del Signore sono infinite, quelle del male e dell’ignoranza lo sono almeno altrettanto.
State, quindi, tranquilli. Le cose torneranno normali al più presto e la gente penserà solo che sia stata colpa di una qualche cometa di passaggio, come fa sempre quando non sa come spiegare razionalmente qualcosa”.
“Grazie a questo piccolo scherzetto, però, - continuò l’orologiaio – almeno per una volta ci si sarà soffermati a pensare un po’ a come siamo abituati a trattare le nostre esistenze e le leggi che le regolano e non è detto che alla fine non sarà servito a qualcosa di buono. Dopotutto l’uomo nel suo profondo è un buon diavolo e bisogna dimostrargli un po’ di fiducia ogni tanto”.
Così dicendo sparì nuovamente dietro il bancone polveroso e Gianni capì che il tempo delle spiegazioni era terminato ed era giunto il momento di tornare a casa.
Fuori si era fatto ormai buio e la sera, a quel punto, era veramente arrivata.
Gianni si affrettò lungo le viuzze con una sicurezza che non seppe a cosa attribuire visto che non era mai stato in quella parte della città prima di allora. Ma le cose strane in quella lunga giornata erano state tante e tali che decise di non porsi più domande e di filare dritto a casa.
Appena superata la porta d’ingresso, infatti, si liberò in fretta dei vestiti e si infilò subito sotto le coperte.
Il mattino dopo la sveglia suonò puntualissima alle sette, proprio come aveva sempre fatto, tanto che Gianni, ancora qualche minuto dopo essersi svegliato, si stava ancora chiedendo se per caso tutta quella faccenda del giorno prima non fosse stato solo frutto della sua immaginazione. Ad ogni modo decise di alzarsi per non rischiare di fare davvero tardi in ufficio.
Prima di dirigersi verso il bagno allungò la mano verso lo stereo che stava sul comodino e sintonizzò le onde della radio sulla frequenza del radiogiornale del mattino.
“… Pare, quindi, - gracchiò l’apparecchio – che la causa sia da ricercarsi nelle variazioni delle onde elettromagnetiche dovute al passaggio di una cometa rasente l’atmosfera terrestre che avrebbe provocato una grave alterazione nel funzionamento di tutti gli apparecchi di misurazione del tempo. Siamo, comunque, felici di comunicare al mondo intero che si è trattato di un fenomeno passeggero e che già a partire da questa mattina tutto appare tornato alla normalità”.
Gianni fermò a mezz’aria il rasoio con il quale stava cercando di domare la sua ispida barba mattuttina.
Allora era tutto vero. Era successo veramente.
E dai ricordi del giorno precedente gli parve di scorgere il volto del vecchio orologiaio che da dietro l’enorme bancone polveroso gli faceva l’occhietto.
“Che strano! – pensò – di solito in questa stanza non comincia ad entrare luce prima delle nove del mattino”.
Si alzò a sedere sul letto e tentò di leggere l’orologio che portava al polso. Segnava le nove e un quarto. Sarebbe dovuto essere in ufficio già da un’ora. Balzò fuori dal letto con un salto, accese la lampada che stava sul comodino e afferrò la sveglia. Segnava le sette.
“Maledetto aggeggio – gridò fuori di sé – te ne stai tutto il giorno senza fare niente e ti permetti pure di scordarti di chiamarmi per andare a lavorare!”.
Corse in bagno a lavarsi, si infilò in fretta e furia un paio di pantaloni e una camicia e corse fuori senza neanche fermarsi a prendere il solito caffè.
“Accidenti – pensava mentre si affrettava a prendere l’autobus all’angolo della strada – e adesso che cosa racconto al principale? Proprio stamattina che c’era tutto quel lavoro da sbrigare”.
Mentre attraversava la strada per raggiungere la fermata dell’autobus fu investito da uno sciame di ragazzini che, carichi delle loro cartelle, correvano festosi e urlanti verso i giardini pubblici.
“Ehi ragazzi – gridò Gianni – che succede, non c’è scuola stamattina?” e così dicendo afferrò uno di loro per il bavero del cappotto.
“Pare proprio di no, signore – rispose tutto compito lo scolaretto – oggi ci siamo presentati a scuola come tutte le mattine ma il bidello non è venuto ad aprire. Così abbiamo pensato che forse c’è qualche sciopero e si sono dimenticati di avvisarci”.
“Oibò – pensò Gianni mentre il bambinetto si divincolava dalla presa e correva a raggiungere gli altri – vuoi vedere che anche il bidello della scuola stamattina ha avuto problemi con la sveglia?”.
Guardò nuovamente il suo orologio. Adesso segnava le dieci e mezza.
Ma non era possibile! Non poteva essere trascorso così tanto tempo da quando era uscito di casa.
Probabilmente il suo vecchio orologio cominciava a sentire il peso degli anni e stava davvero dando i numeri.
Decise allora di chiedere l’ora ad un passante. Proprio in quel momento gli venne incontro con passo malfermo un vecchietto con le braccia colme di sacchetti.
“Mi scusi tanto – gli disse Gianni – saprebbe dirmi che ore sono precisamente?”.
“Le dirò – gli rispose di rimando l’anziano signore – non ci capisco nulla. Il mio orologio segna le undici e dieci. Ma non è proprio possibile”.
“Come – pensò Gianni tra sé – un’ora diversa ancora?”.
“Mi scusi se insisto – fece rivolto al vecchietto – perché dice che non è possibile?”.
“Vede – rispose lui – sono più di dieci anni che tutte le mattine vado al parco a dare da mangiare ai piccioni e loro si sono talmente abituati a me che ogni giorno alla stessa ora precisa si presentano alla stessa panchina. Ogni giorno alla stessa ora precisa, capisce? – ripetè per essere sicuro di essere stato compreso – non c’è di che stupirsi, si sa che gli uccelli hanno come un orologio svizzero in quella loro piccola testa”.
“Si, si d’accordo – disse Gianni che già cominciava a spazientirsi per tutte quelle stranezze – ma allora dove sta il problema?”.
“Il problema sta nel fatto, caro lei, che questa mattina li ho aspettati invano e loro non si sono presentati. Non capisco, non capisco proprio”.
E così dicendo riprese la sua strada continuando a scuotere sconsolatamente la testa.
Gianni non fece a tempo a considerare quell’ultimo avvenimento che le campane del campanile della chiesa del quartiere cominciarono a battere l’ora.
Don, don, don… dodici rintocchi. Dodici? Ma non era ancora mezzogiorno!
“Questo è veramente troppo! – esclamò al colmo dell’esasperazione – ma si può sapere che sta succedendo?”.
In quel momento vide passare l’autobus diretto al centro. Gianni fece di corsa l’ultimo tratto di strada che lo separava dalla fermata e fece in tempo per un pelo ad afferrare il veicolo per la maniglia e ad intrufolarsi attraverso lo sportello che si stava chiudendo.
Quello doveva di certo essere l’autobus delle nove e mezza… o forse quello delle dieci, o delle undici meno un quarto… Oh, insomma. Ci rinunciava. Qualunque ora fosse l’importante era riuscire a raggiungere la città per vederci chiaro.
Appena giunto in centro si rese subito conto che anche lì stava succedendo qualcosa di anormale.
Ovunque regnava la confusione. Le edicole erano chiuse perché i giornali non erano arrivati in orario, la gente correva disorientata da un marciapiede all’altro, c’era chi si vedeva sbattere in faccia la porta di un negozio che stava chiudendo, chi attendeva invano che un altro aprisse.
Alla stazione, poi, la situazione era ancora più tragica, treni continuavano ad arrivare e a partire senza essere annunciati, mentre l’altoparlante avvisava i viaggiatori dell’arrivo di altri che, invece, non si facevano vedere.
Gianni aveva ormai rinunciato all’idea di andare in ufficio per quella mattina (o per quel pomeriggio? Non ci capiva più nulla).
Si diresse, allora, con passo deciso da un orologiaio. Forse lui avrebbe saputo spiegare cosa diavolo stava succedendo.
Proprio lì di fronte, infatti, una vetrina grandissima e illuminata da numerosi faretti colorati dominava un ampio tratto di strada.
Esposti vi si potevano ammirare tutti gli ultimi modelli di Swach appena messi in commercio e poi pendoli e orologi di tutti i tipi e dalle fogge più strane, orologi da mettere in cucina, in salotto, in entrata, addirittura nel bagno. Orologi da regalo, adatti per un compleanno o per un matrimonio, studiati per soddisfare tutti i gusti e tutte le età.
Gianni spinse la porta di ingresso e fece per entrare nel fantastico negozio ma fu subito investito da un coro di pendole, sveglie, campanelle e suonerie varie che andavano all’impazzata e a ritmo continuo, così che appena alcune smettevano di battere un’ora subito altre cominciavano a suonarne un’altra.
Gianni cercò di superare quel muro di suoni assordanti e gridò in direzione del povero commesso che non sapeva più da che parte correre per farle smettere.
“Si può sapere che sta succedendo? C’è tutta la città in subbuglio e qui sembra sia arrivato il Giudizio Universale!”.
“Cosa vuole che le dica – gridò di rimando il commesso che ora tentava inutilmente di tapparsi le orecchie alla meglio per non rischiare di rimanere sordo – è da stamattina che si comportano così. Ogni ingranaggio ha preso a funzionare ad un ritmo diverso da quello di tutti gli altri, così ognuno va avanti per proprio conto”.
Gianni decise che per mantenere l’integrità dei suoi timpani doveva assolutamente uscire al più presto da quel posto.
Cercò di salutare il commesso ma già quello si era rimesso al lavoro per cercare di bloccare le suonerie e comunque non lo avrebbe sentito lo stesso, per cui uscì in fretta dal negozio preoccupandosi di chiudere bene la porta dietro di sé.
Era tutto inutile, così facendo non sarebbe mai venuto a capo di nulla.
Non sarebbe servito a niente rivolgersi a qualche altro commerciante per cercare di capirci qualcosa, probabilmente erano tutti nelle stesse condizioni.
Continuò a camminare sconsolatamente cercando di pensare ad una soluzione che gli permettesse di venire fuori da quella babele temporale.
Continuando a camminare, senza quasi rendersene conto, si lasciò alle spalle il centro cittadino e cominciò a dirigersi verso la parte vecchia della città. Era talmente immerso nei suoi pensieri che non si rese conto di essere entrato in un vecchio quartiere che non aveva mai visto.
S’infilò in una viuzza sconnessa e strettissima.
Le pareti delle case, addossate l’una all’altra, impedivano quasi del tutto ai raggi del sole di penetrare, così che, nonostante fosse ancora pieno giorno , lì era quasi buio.
Girò l’angolo e si ritrovò di fronte ad una porticina piccola e contorta per l’umidità. Una finestra fungeva da vetrina ad un piccolo negozio e attraverso il vetro polveroso e ormai quasi del tutto opaco di intravedevano esposti alcuni vecchi orologi.
“E’ una vecchia bottega di orologiaio” si rese subito conto Gianni.
E senza pensarci oltre decise di entrare. Infilò la testa attraverso la porticina.
“E’ permesso?” chiese quasi in un sussurro.
Quell’aria pesante di polvere e di umidità, gli oggetti che dall’aspetto dovevano essere certo molto antichi, gli davano l’impressione di aver violato un luogo sacro.
“C’è nessuno?” si azzardò a chiedere con un tono un po’ più alto.
Da dietro il grosso bancone roso dai tarli che occupava quasi tutto lo spazio del piccolo locale, si affacciò la testa di un omino.
Sì, non si poteva definirlo in altro modo. Anzi, pareva quasi un folletto con i suoi capelli bianchissimi, i baffetti pure candidi e ordinati, gli occhietti piccoli e furbi – svegli per l’età che l’ometto dimostrava – e che guardavano da dietro le spesse lenti degli occhialini poggiati sulla punta del grosso naso.
Gianni ristette un attimo in silenzio. Non sapeva neppure lui che cosa lo aveva spinto ad entrare lì dentro e ora che c’era non era più in grado di formulare alcuna domanda.
Il vecchio orologiaio raddrizzò completamente la schiena e poggiò sul banco il cipollone che stava riparando e che nella sua minuscola mano appariva veramente enorme e guardò Gianni lanciandogli un’occhiata quasi compiaciuta da sopra le lenti degli occhiali che gli penzolavano dal naso.
Pareva quasi che si divertisse ad osservare il disagio del povero giovane che cercava invano le parole per spiegare il motivo che l’aveva spinto ad entrare lì dentro.
Il vecchietto sorrise.
“Credo di sapere perché lei si è rivolto a me, – gli disse – desidera sapere che cosa sta succedendo agli orologi di tutta la città e del mondo intero. Perché lei forse ancora non lo sa, ma lo stesso sta accadendo anche in tutto il resto del mondo”.
“Beh, sì. Veramente era proprio quello che ero venuto a chiederle” rispose quasi balbettando Gianni che ormai non sapeva più di che stupirsi.
“Vede, caro signore – disse il vecchio orologiaio – al giorno d’oggi la gente non sa far altro che correre avanti e indietro, prendere appuntamenti e darne in continuazione. E’ talmente abituata a servirsi del tempo che ha disimparato ad apprezzarlo pienamente. Non sa più calcolare il valore di una giornata, di un’ora, di un singolo minuto”.
“Ogni frazione del giorno – continuò l’anziano ometto – è stata svuotata di ogni significato e viene considerata solo perché in quella data ora si deve andare dal parrucchiere o c’è il notaio che aspetta per una firma o ancora perché non presentarsi in orario in quel dato posto ci può far perdere del denaro. Anche gli orologi, che sono stati creati per aprire gli occhi degli uomini sul valore del tempo, perché fosse quasi possibile vederlo, maneggiarlo, insomma, perché diventasse parte concreta della vita delle persone, da figli del tempo quali erano, sono ora diventati aridi strumenti nelle mani dell’uomo che se ne serve per condurre una vita senza senso”.
L’ometto fece una breve pausa di silenzio, poi continuò.
“Come un qualsiasi altro oggetto, frutto e strumento della vanità del mondo, gli orologi sono stati abbelliti, infiocchettati, colorati, ingranditi, rimpiccioliti. Ridicolizzati, insomma.
Sono diventati oggetti da mostra. Vengono mostrati con vanità al polso, al collo, alle dita delle mani, vengono persino portati alle orecchie, dove più che in qualunque altra situazione stanno a dimostrare come sia andato perduto il loro vero significato e abbandonato il loro vero scopo. Si è, dunque, fatto di un oggetto dall’enorme valore un vero e proprio pezzo da baraccone.
E così gli orologi, questi fedeli figli del Tempo, hanno deciso di ribellarsi, non vogliono più farsi complici di queste vuote esistenze ma tornare ad aiutare il loro Padre a recuperare il vero significato del Tempo”.
Gianni guardò il vecchietto un po’ perplesso.
In effetti, quell’ometto non aveva tutti i torti. Anche lui per prima cosa si era preoccupato di come avrebbe fatto con tutti i suoi impegni. Non aveva pensato nemmeno per un minuto a quello che avrebbe perso se non ci fosse stato più modo di disporre del tempo come di un bene concreto.
“Lei ha ragione signor orologiaio – disse timoroso – ma come farà la gente d’ora in poi?”.
“Non si preoccupi – rispose di rimando il vecchietto con tono comprensivo – non c’è da aspettarsi che le persone capiscano subito. Anzi, c’è il pericolo che, mantenendo questo stato di cose troppo a lungo, il popolo, esacerbato, se la prenda ancora di più e trovi in breve tempo un altro sistema per maltrattare questo grande bene. Tanto si sa che se le vie del Signore sono infinite, quelle del male e dell’ignoranza lo sono almeno altrettanto.
State, quindi, tranquilli. Le cose torneranno normali al più presto e la gente penserà solo che sia stata colpa di una qualche cometa di passaggio, come fa sempre quando non sa come spiegare razionalmente qualcosa”.
“Grazie a questo piccolo scherzetto, però, - continuò l’orologiaio – almeno per una volta ci si sarà soffermati a pensare un po’ a come siamo abituati a trattare le nostre esistenze e le leggi che le regolano e non è detto che alla fine non sarà servito a qualcosa di buono. Dopotutto l’uomo nel suo profondo è un buon diavolo e bisogna dimostrargli un po’ di fiducia ogni tanto”.
Così dicendo sparì nuovamente dietro il bancone polveroso e Gianni capì che il tempo delle spiegazioni era terminato ed era giunto il momento di tornare a casa.
Fuori si era fatto ormai buio e la sera, a quel punto, era veramente arrivata.
Gianni si affrettò lungo le viuzze con una sicurezza che non seppe a cosa attribuire visto che non era mai stato in quella parte della città prima di allora. Ma le cose strane in quella lunga giornata erano state tante e tali che decise di non porsi più domande e di filare dritto a casa.
Appena superata la porta d’ingresso, infatti, si liberò in fretta dei vestiti e si infilò subito sotto le coperte.
Il mattino dopo la sveglia suonò puntualissima alle sette, proprio come aveva sempre fatto, tanto che Gianni, ancora qualche minuto dopo essersi svegliato, si stava ancora chiedendo se per caso tutta quella faccenda del giorno prima non fosse stato solo frutto della sua immaginazione. Ad ogni modo decise di alzarsi per non rischiare di fare davvero tardi in ufficio.
Prima di dirigersi verso il bagno allungò la mano verso lo stereo che stava sul comodino e sintonizzò le onde della radio sulla frequenza del radiogiornale del mattino.
“… Pare, quindi, - gracchiò l’apparecchio – che la causa sia da ricercarsi nelle variazioni delle onde elettromagnetiche dovute al passaggio di una cometa rasente l’atmosfera terrestre che avrebbe provocato una grave alterazione nel funzionamento di tutti gli apparecchi di misurazione del tempo. Siamo, comunque, felici di comunicare al mondo intero che si è trattato di un fenomeno passeggero e che già a partire da questa mattina tutto appare tornato alla normalità”.
Gianni fermò a mezz’aria il rasoio con il quale stava cercando di domare la sua ispida barba mattuttina.
Allora era tutto vero. Era successo veramente.
E dai ricordi del giorno precedente gli parve di scorgere il volto del vecchio orologiaio che da dietro l’enorme bancone polveroso gli faceva l’occhietto.
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