domenica 15 giugno 2008

Pierre, pinguino alla moda






Doveva trovare un modo per correre ai ripari. Continuando di questo passo ci avrebbe rimesso le piume.

Oddio … le piume … le sue amate piume … erano proprio loro la causa di tutti i suoi attuali problemi …

*

Ma cominciamo dall’inizio.

Pierre era un pinguino di gran gusto in fatto di moda, un vero intenditore. Non si perdeva una sfilata. Dolce&Gabbiana, Laura Pesciotti, Renato Cavalli, … li conosceva davvero tutti.

Ma la sua vera passione erano le acconciature. C’era stato il periodo delle creste Punk, delle piume arrotolate a rasta alla moda giamaicana, delle treccine africane. E lui non aveva perso un colpo, sempre all’ultimo grido, sempre all’avanguardia.
Mechès o onde, permanente o lisci. Persino la banana stile anni ’50.

Fino a quando non era arrivato il colore. Dal “verde limonenon moltomaturo”, al “rosa fenicotteroappenatornatodaipaesidelsud”, dal “blu cielotraputodistelle”, al “rosso pettirossomoltoarrabbiato”. Per essere davvero trendy non potevi fare a meno di avere sulla testa una pennellata di una qualche improbabile tonalità. E così Pierre aveva deciso. Avrebbe avuto le piume tinte di “arancio subitodopountramontoaicaraibi”. Ve l’immaginate che scena? Già si vedeva, spiccare come un agrume maturo sull’abbacinante bianco della banchisa polare. Chi non l’avrebbe notato? I suoi amici sarebbero tutti morti di invidia.

Sì perché Pierre non si sarebbe limitato a tingersi la chioma, questa volta voleva davvero esagerare. Si sarebbe tinto tutto, da cima a piedi. Un vero colpo di genio, da lasciare senza fiato.

Così il pinguino si procurò una tintura di quelle potenti, garantita per non scolorire all’acqua né al sole e che si sarebbe mantenuta vivace e brillante per un sacco di tempo.

Fece tutto da solo. Voleva essere l’unico artefice di quel capolavoro. Preparò la mistura, e, armato di pettine e pennello, cominciò a distribuirsi il colore su tutto il corpo, poi si coprì con un asciugamano per tenerlo al riparo durante la posa, quindi si mise seduto e attese il tempo necessario perché la mistura aderisse alle piume e rilasciasse il colore.

Quindi, terminato il tempo di posa, si preparò per un tuffo, per eliminare il colore in eccesso, pronto ad ammirare l’effetto ottenuto.

Ma quando Pierre fece per togliersi l’asciugamano si accorse che, forse a causa di un’intolleranza alla mistura, forse per una reazione chimica, forse per chissà quale strano fenomeno, tutte le piume gli erano cadute e lui era tutto nudo, completamente alla mercè del freddo e degli elementi.

*

Così adesso Pierre era lì, nel bel mezzo del Polo Sud, senza alcuna protezione dal vento gelido che gli tagliava la pelle, senza più forze e incapace di muoversi. Ma ciò che più lo addolorava era il pensiero che così implume era davvero … unfashion. Il nudo quell’anno non andava proprio.

Ormai la situazione stava continuando da qualche giorno e Pierre sarebbe certamente morto di freddo quando, fortunatamente, alcuni scienziati e biologi marini che stavano passando da quelle parti per mettere a punto la loro strumentazione da ricerca, lo videro e, rendendosi conto che aveva ormai perso i sensi e che stava per morire, lo raccolsero e lo portarono alla base.


Quando Pierre si risvegliò, qualche settimana dopo, si rese subito conto di sentirsi molto meglio e notò che, pur trovandosi nuovamente sul ghiaccio, si sentiva caldo e protetto. Si guardò e si accorse di indossare uno strano rivestimento. Gli scienziati che si erano occupati di lui, infatti, avevano pensato che l’unico modo per salvarlo era fargli un cappottino su misura. Così si erano rivolti ad una ditta specializzata nella fabbricazione di attrezzature da sub e gli avevano fatto tagliare su misura una muta di quelle usate dai subacquei per resistere alla basse temperature dell’acqua durante le immersioni in profondità. Quindi, lo avevano riportato dove lo avevano trovato sperando che quello servisse per fargli riprendere le forze e per farlo ristabilire.

Pierre corse ai bordi di uno specchio d’acqua per guardarsi meglio e nel vedersi così abbigliato, dimenticando che quella sua fissazione per la moda gli aveva fatto rischiare la pelle, si complimentò profondamente con se stesso. Pavoneggiandosi nel suo nuovo abito gli sembrò di essere davvero alla moda. Un vero elegantone dei ghiacci. Adesso chiunque lo avrebbe invidiato. Nessuno, tra tutti quelli che conosceva, poteva vantare un capo così originale.
Alla fine, dunque, in un modo o nell’altro, Pierre era riuscito nel suo intento.

venerdì 13 giugno 2008

Cinders, la maialina con gli stivali





Cinders era la quarta di sette tra fratelli e sorelle nati nell’allevamento di suini di Debbie ed Andrew Keeble di Thirsk, nel North Yorkshire. Fin da piccolissima aveva dimostrato di non amare per nulla l’abitudine, tipica della sua specie, di rotolarsi allegramente nel fango e anzi, preferiva starsene tutto il giorno accanto alla mamma, sdegnosa dei richiami dei fratelli e delle sorelle che la sollecitavano ad andare a giocare con loro.

Non è che fosse schizzinosa, è che proprio le dava fastidio quella sgradevole sensazione che dà il fango quando ti si insinua tra le dita, non parliamo, poi, dell’orrore di avere tutto il corpo inzaccherato e maleodorante.

Insomma, Cinders era una maialina davvero atipica, al punto che inizialmente i suoi “genitori” adottivi si erano molto preoccupati vedendo che, al contrario dei suoi simili che dopo poche settimane di vita già si avventuravano in spericolate esplorazioni, se ne rimaneva sempre in un cantuccio.

Temendo fosse affetta da un qualche morbo la fecero anche visitare dal veterinario del paese ma gli esami non evidenziarono nulla di preoccupante. Cinders in realtà stava benissimo, solo continuava a restarsene tutta da sola in disparte nel timore di sporcarsi le zampine.

Fu così che un giorno, nel tentativo di trovare una soluzione che mettesse fine una volta per tutte a quel forzoso isolamento, i due “genitori” adottivi di Cinders le infilarono alle zampe due paia di stivaletti in gomma.

Dopo un primo momento di sconcerto la maialina cominciò a muovere i primi passi e, vedendo che in questo modo non si sporcava, dimostrò di apprezzare quell’iniziativa e se ne andò in giro zampettando allegra per il cortile.

Adesso sì che avrebbe potuto gironzolare per la fattoria senza problemi di igiene e così fece.

Con quegli stivaletti ai piedi Cinders si sentiva davvero forte e invincibile. Le sembrava che nulla le sarebbe stato impossibile. Così, spavalda nelle sue scarpette di gomma, si avventurò nel bosco senza paura e senza curarsi di avvisare i genitori che si stava allontanando.

Cammina cammina, però, finì con il perdere l’orientamento e di colpo scese la sera senza che la piccola Cinders riuscisse a capire dove fosse il sentiero del ritorno a casa. Un po’ spaventata, ma ancora fiduciosa nella forza che le davano i suoi stivaletti, continuò ad inoltrarsi sempre più nel folto del bosco, fino a quando non sentì il terreno mancarle sotto i piedi e si ritrovò sul fondo di una profonda buca. Provò disperatamente ad arrampicarsi per uscire da quella situazione ma gli stivaletti di gomma la facevano scivolare riportandola verso il basso.

Adesso sì che iniziava ad avere paura e anche la fiducia nei suoi stivaletti cominciava a venirle meno. Dopo qualche altro inutile tentativo, capì che non solo le sua calzature nuove non le erano assolutamente di aiuto, ma addirittura a causa loro non sarebbe mai riuscita a salvarsi. Con grande disgusto decise allora di liberarsene.

Tolti gli stivali, riuscì a fare presa con le unghie sulla parete terrosa della buca in cui era precipitata e a salire in superficie. Intanto si era fatto giorno e Cinders ritrovò facilmente la strada di casa dove arrivò tutta sporca di fango e con le zampette, ormai nude, tutte inzaccherate.
Ma ormai Cinders aveva superato la sua fobìa per lo sporco avendo visto che, in fondo, non era così terribile se anche si ricopriva di terra e che era molto meglio fare affidamento su quello che la natura le aveva donato piuttosto che su degli stivaletti di gomma.

mercoledì 11 giugno 2008

Fiocco, l'unicorno


http://www.lastampa.it/lazampa/girata.asp?ID_blog=164&ID_articolo=454&ID_sezione=339&sezione=News


Fiocco giunse al laghetto che era quasi il tramonto. Lì lo aspettavano gli altri caprioli, suoi compagni di scorribande che, come ogni sera, si ritrovavano tutti insieme ai bordi dello specchio d’acqua per concludere la giornata tra giochi e scherzi.

Quella sera sembravano tutti molto eccitati.

“Guardate ragazzi – stava esclamando con entusiasmo Pelomorbido saltellando allegramente intorno al gruppo – mi stanno crescendo le corna. Guardate! Se ne è accorta la mia mamma stamattina. Sto crescendo. Presto sarò grande e forte come il mio papà e potrò accompagnarlo nelle perlustrazioni del bosco”.

Tutti si strinsero intorno a lui per controllare i due bernoccoli che gli spuntavano proprio in cima alla testa.

“E’ vero – confermò Orecchieallerta – si vedono proprio bene”.

Tutti corsero immediatamente sulla riva per specchiarsi sulla superficie dell’acqua nella speranza di scorgere anch’essi il segnale che erano ormai grandi. Erano nati tutti la primavera precedente e quindi ciascuno di loro era ormai sul punto di lasciarsi alle spalle l’infanzia e di oltrepassare la soglia dell’età adulta.

“Eccoli – gridò felice anche Codabatuffolo – li vedo anch’io!”.

Contagiato da tanto entusiasmo Fiocco si fece largo tra gli amici per riuscire anche lui a specchiarsi. Ma proprio mentre protendeva il muso perché l’acqua gli rimandasse la sua immagine, sentì sollevarsi dal gruppo un’esclamazione di stupore.

“Guardate amici! – esclamò Pelomorbido sbigottito – Fiocco ha un solo corno!”.

In effetti, sulla testa del capriolo, proprio sulla linea tra le due orecchie, si vedeva chiaramente, a farsi strada tra il pelo dell’animale, un unico bernoccolo.

Subito i giovani caprioli cominciarono a sbeffeggiarlo e a deriderlo tanto che Fiocco corse a rifugiarsi piangendo tra le zampe della sua mamma. Da allora non lo videro più sulle sponde del laghetto a giocare con i compagni, né a passeggiare nella radura con i suoi genitori, né a brucare con i suoi simili alla ricerca di bocconcini delicati nel folto del sottobosco.

Fiocco se ne stava sempre in disparte, nascosto e vergognoso di quell’unico corno che cresceva ogni giorno di più dandogli un’aria buffa e per nulla imperiosa come invece i palchi con cui i suoi amici si pavoneggiavano tra loro ingaggiando le giocose lotte e le vanitose sfilate cui lui poteva assistere solo stando al riparo del folto dei cespugli.

Con il tempo la sua infelicità si faceva sempre più profonda e ormai Fiocco era rassegnato al suo destino quando un giorno, proprio nel mezzo di uno di quegli allegri tornei organizzati dai giovani caprioli ai bordi del laghetto, piombò sul branco un gruppo di cacciatori animati delle peggiori intenzioni.

Subito gli animali si dispersero terrorizzati, ma già sembrava che, disorientati dalla sorpresa dell’attacco e dall’aggressività dei cani e dei cacciatori, per i giovani caprioli non ci sarebbe stato scampo alcuno.

Fiocco, nel vedere la terribile scena, istintivamente uscì allo scoperto per affrontare – non sapeva nemmeno lui come – il nemico e salvare i compagni.

Ma proprio mentre si rendeva conto di quanto il suo gesto rischiasse di rivelarsi tanto inutile quanto fatale, i cacciatori, nel vederlo, interruppero improvvisamente la loro caccia.

“Guardate – gridarono stupefatti – il mitico unicorno. Ma allora esiste davvero!”.

“Se questa magica creatura vive qui – esclamò subito uno di loro – alla questa è una foresta fatata. Andiamocene, non possiamo macchiarla di sangue o rischieremmo una punizione gravissima”.

E così dicendo si allontanarono promettendo di non fare mai più ritorno.

Nel vedere i cacciatori che si allontanavano e rendendosi conto di essere ormai al sicuro, i giovani caprioli tornarono sui loro passi ringraziando l’amico per essere corso in loro aiuto e assicurandogli che non lo avrebbero mai più preso in giro per quell’unico corno che era stato la loro salvezza.

Da allora Fiocco è tornato a correre felice con gli amici consapevole che il solo fatto di essere diverso dagli altri non è necessariamente una sfortuna.

domenica 8 giugno 2008

Tama, micia bigliettaia






Giappone. Tama è una gatta di nove anni. La sua particolarità sta nel fatto che, al contrario di quasi tutti i suoi simili, ha un lavoro: fa la «bigliettaia» in una piccola stazione del treno elettrico di Kinokawa, in Giappone. Da quando Tama presidia la biglietteria, i passeggeri sono aumentati del 10%: tutti vogliono vedere e accarezzare la famosa «capostazione» (Afp)



Tama disprezzava i suoi simili che trascorrevano le loro giornate spaparanzati al sole con la mente occupata da un solo pensiero: la ciotola colma di cibo che li attendeva a casa e lo spumoso cuscino ai piedi del letto del loro padrone su cui si sarebbero accoccolati.

Tama no, lei era diversa. Lei voleva lavorare.

Aveva girato molto per il mondo nella sua vita alla ricerca di un’occupazione che la facesse sentire utile, ma non aveva raccolto che incomprensione e maltrattamenti. Nessuno pareva capire il suo desiderio di avere un lavoro.

Così fu quando cercò di recuperare da un cassonetto una bambola finita per errore tra la spazzatura che la sua padroncina stava disperatamente cercando. Fu scambiata per un randagio che rovistava tra i rifiuti e fu scacciata in malo modo a colpi di scopa.

E un vero fallimento fu anche il suo tentativo di portare in salvo dei bambini da un incendio gettandosi tra le fiamme. Allora fu presa per uno dei mici di casa rimasto intrappolato e fu tratta a sua volta in salvo dai vigili del fuoco.

E non andò meglio neppure quando cercò di rianimare un vecchietto svenuto su una panchina del parco leccandogli il viso per farlo svegliare. L’anziano signore si riebbe ma iniziò a cacciarla con il bastone, convinto che stesse per aggredirlo.

Tama stava riflettendo sulla lunga sfilza di insuccessi che era riuscita ad inanellare negli ultimi tempi quando giunse alla stazione e decise di salire su uno dei vagoni fermi in attesa di ripartire per raggiungere una destinazione lontana che, forse, le avrebbe portato maggior fortuna.

Con circospezione felina salì cautamente i gradini e si accoccolò sotto uno dei sedili in attesa della partenza. Nessuno si sarebbe accorto di lei.

Intanto il vagone cominciava a riempirsi di passeggeri. Signore dai grandi cappelli, bambini vocianti, coppiette di anziani, salivano e si sistemavano con i loro bagagli. Tutto sembrava pronto per il fischio del capostazione quando, ad un tratto, una giovane si mise a gridare seguita dalle altre donne sedute accanto a lei.

“Ecco – pensò subito Tama – sono stata scoperta. Ora mi cacceranno come al solito e sarò costretta a scendere e a rinunciare al mio viaggio”.

Ma proprio quando, con rassegnazione, stava per uscire dal suo nascondiglio vide che ad attrarre l’attenzione dei passeggeri – la maggior parte dei quali ora se ne stava in piedi sui sedili del treno – e a gettare il panico nello compartimento non era lei, bensì un topolino che era sbucato all’improvviso e che ora correva spaventato da una parte all’altra del vagone.

“Che succede qua dentro?” gridò il bigliettaio attirato dallo scompiglio.

In quel momento, Tama, guidata dall’istinto e aiutata dall’agilità tipica della sua specie, si avventava sul malcapitato roditore acciuffandolo e mettendo fine alla bagarre. I passeggeri si rimisero a sedere applaudendo all’abilità di Tama che, trionfante e orgogliosa, consegnò il topolino al bigliettaio che, ammirato dalla sua prontezza, decise di tenerla con sè.

Da quel giorno Tama ha ottenuto un posto di vicebigliettaio incaricato. Porta sulle ventitré il suo bel cappello ufficiale e attorno al collo la mostrina con sopra scritto il suo nuovo status. Accompagna il suo padrone e capo lungo il treno per annullare i biglietti e controlla che non vi siano ospiti sgraditi a bordo.
I passeggeri di quella tratta sono aumentati per il solo gusto di vederla al lavoro e nessuno si azzarda a viaggiare a sbafo.

Salvate Orange Ted





La questione era di estrema delicatezza. Erano necessarie, per portare a termine con successo l’operazione, discrezione, rapidità e decisione.

Bisognava fare in fretta. Non c’era tempo da perdere. Era una questione di vita o di morte.

A raccontare della brutta avventura alle autorità era stata proprio la famiglia Armstromg di Burnham-on-Sea, che aveva chiesto fosse fatto tutto il possibile affinché Orange Ted fosse riportato a casa e all’affetto dei suoi cari. Soprattutto della piccola Jaimee che dal giorno della scomparsa era davvero inconsolabile e non riusciva più nemmeno a dormire.

Per questo i genitori, Deb e Dan erano disposti a tutto.

Così è partito l’Sos attorno al globo e dopo qualche ricerca Orange Ted è stato rintracciato all’aeroporto di Girona. A quel punto non restava che individuare chi si sarebbe occupato della cosa. Un migliaio di agenti è stato, così, allertato per trovare un volontario disposto a recarsi sul posto per effettuare il recupero.

Ma come spesso succede in questi casi, la fortuna non aiuta e il primo volontario, causa ritardi e imprevisti vari, non ha potuto portare a termine l’operazione. Orange Ted sembrava destinato ad essere abbandonato al suo destino quando, fortunosamente, è stato prelevato da un altro agente che, venuto a conoscenza della faccenda e trovandosi casualmente nei paraggi, ha potuto prelevarlo e ricondurlo sulla via di casa fino al North Yorkshire.

Da lì a Burnham-on-Sea il viaggio è continuato via posta fino a che, finalmente, dopo un'odissea di 44 giorni e oltre 2.400 chilometri, Orange Ted è tornato sano e salvo tra le braccia della piccola Jaimee che lo aveva dimenticato su una poltroncina dello scalo aereo al termine di una gita con i genitori in Costa Brava.

Con un solo occhio, mezzo spelacchiato e rattoppato in più punti, ma una cosa è certa. Orange Ted è senza dubbio l’orsachiotto di peluche più amato del mondo.

La rivolta degli orologi






http://archiviostorico.corriere.it/1993/gennaio/05/gli_orologi_battessero_tempo_della_co_0_9301052468.shtml

Gianni aprì gli occhi infastidito dalla lama di sole che penetrava attraverso una fessura della persiana abbassata.
“Che strano! – pensò – di solito in questa stanza non comincia ad entrare luce prima delle nove del mattino”.

Si alzò a sedere sul letto e tentò di leggere l’orologio che portava al polso. Segnava le nove e un quarto. Sarebbe dovuto essere in ufficio già da un’ora. Balzò fuori dal letto con un salto, accese la lampada che stava sul comodino e afferrò la sveglia. Segnava le sette.

“Maledetto aggeggio – gridò fuori di sé – te ne stai tutto il giorno senza fare niente e ti permetti pure di scordarti di chiamarmi per andare a lavorare!”.

Corse in bagno a lavarsi, si infilò in fretta e furia un paio di pantaloni e una camicia e corse fuori senza neanche fermarsi a prendere il solito caffè.

“Accidenti – pensava mentre si affrettava a prendere l’autobus all’angolo della strada – e adesso che cosa racconto al principale? Proprio stamattina che c’era tutto quel lavoro da sbrigare”.

Mentre attraversava la strada per raggiungere la fermata dell’autobus fu investito da uno sciame di ragazzini che, carichi delle loro cartelle, correvano festosi e urlanti verso i giardini pubblici.

“Ehi ragazzi – gridò Gianni – che succede, non c’è scuola stamattina?” e così dicendo afferrò uno di loro per il bavero del cappotto.

“Pare proprio di no, signore – rispose tutto compito lo scolaretto – oggi ci siamo presentati a scuola come tutte le mattine ma il bidello non è venuto ad aprire. Così abbiamo pensato che forse c’è qualche sciopero e si sono dimenticati di avvisarci”.

“Oibò – pensò Gianni mentre il bambinetto si divincolava dalla presa e correva a raggiungere gli altri – vuoi vedere che anche il bidello della scuola stamattina ha avuto problemi con la sveglia?”.

Guardò nuovamente il suo orologio. Adesso segnava le dieci e mezza.

Ma non era possibile! Non poteva essere trascorso così tanto tempo da quando era uscito di casa.
Probabilmente il suo vecchio orologio cominciava a sentire il peso degli anni e stava davvero dando i numeri.
Decise allora di chiedere l’ora ad un passante. Proprio in quel momento gli venne incontro con passo malfermo un vecchietto con le braccia colme di sacchetti.

“Mi scusi tanto – gli disse Gianni – saprebbe dirmi che ore sono precisamente?”.
“Le dirò – gli rispose di rimando l’anziano signore – non ci capisco nulla. Il mio orologio segna le undici e dieci. Ma non è proprio possibile”.

“Come – pensò Gianni tra sé – un’ora diversa ancora?”.

“Mi scusi se insisto – fece rivolto al vecchietto – perché dice che non è possibile?”.

“Vede – rispose lui – sono più di dieci anni che tutte le mattine vado al parco a dare da mangiare ai piccioni e loro si sono talmente abituati a me che ogni giorno alla stessa ora precisa si presentano alla stessa panchina. Ogni giorno alla stessa ora precisa, capisce? – ripetè per essere sicuro di essere stato compreso – non c’è di che stupirsi, si sa che gli uccelli hanno come un orologio svizzero in quella loro piccola testa”.

“Si, si d’accordo – disse Gianni che già cominciava a spazientirsi per tutte quelle stranezze – ma allora dove sta il problema?”.

“Il problema sta nel fatto, caro lei, che questa mattina li ho aspettati invano e loro non si sono presentati. Non capisco, non capisco proprio”.

E così dicendo riprese la sua strada continuando a scuotere sconsolatamente la testa.
Gianni non fece a tempo a considerare quell’ultimo avvenimento che le campane del campanile della chiesa del quartiere cominciarono a battere l’ora.

Don, don, don… dodici rintocchi. Dodici? Ma non era ancora mezzogiorno!

“Questo è veramente troppo! – esclamò al colmo dell’esasperazione – ma si può sapere che sta succedendo?”.

In quel momento vide passare l’autobus diretto al centro. Gianni fece di corsa l’ultimo tratto di strada che lo separava dalla fermata e fece in tempo per un pelo ad afferrare il veicolo per la maniglia e ad intrufolarsi attraverso lo sportello che si stava chiudendo.
Quello doveva di certo essere l’autobus delle nove e mezza… o forse quello delle dieci, o delle undici meno un quarto… Oh, insomma. Ci rinunciava. Qualunque ora fosse l’importante era riuscire a raggiungere la città per vederci chiaro.

Appena giunto in centro si rese subito conto che anche lì stava succedendo qualcosa di anormale.

Ovunque regnava la confusione. Le edicole erano chiuse perché i giornali non erano arrivati in orario, la gente correva disorientata da un marciapiede all’altro, c’era chi si vedeva sbattere in faccia la porta di un negozio che stava chiudendo, chi attendeva invano che un altro aprisse.

Alla stazione, poi, la situazione era ancora più tragica, treni continuavano ad arrivare e a partire senza essere annunciati, mentre l’altoparlante avvisava i viaggiatori dell’arrivo di altri che, invece, non si facevano vedere.

Gianni aveva ormai rinunciato all’idea di andare in ufficio per quella mattina (o per quel pomeriggio? Non ci capiva più nulla).
Si diresse, allora, con passo deciso da un orologiaio. Forse lui avrebbe saputo spiegare cosa diavolo stava succedendo.

Proprio lì di fronte, infatti, una vetrina grandissima e illuminata da numerosi faretti colorati dominava un ampio tratto di strada.

Esposti vi si potevano ammirare tutti gli ultimi modelli di Swach appena messi in commercio e poi pendoli e orologi di tutti i tipi e dalle fogge più strane, orologi da mettere in cucina, in salotto, in entrata, addirittura nel bagno. Orologi da regalo, adatti per un compleanno o per un matrimonio, studiati per soddisfare tutti i gusti e tutte le età.

Gianni spinse la porta di ingresso e fece per entrare nel fantastico negozio ma fu subito investito da un coro di pendole, sveglie, campanelle e suonerie varie che andavano all’impazzata e a ritmo continuo, così che appena alcune smettevano di battere un’ora subito altre cominciavano a suonarne un’altra.

Gianni cercò di superare quel muro di suoni assordanti e gridò in direzione del povero commesso che non sapeva più da che parte correre per farle smettere.

“Si può sapere che sta succedendo? C’è tutta la città in subbuglio e qui sembra sia arrivato il Giudizio Universale!”.

“Cosa vuole che le dica – gridò di rimando il commesso che ora tentava inutilmente di tapparsi le orecchie alla meglio per non rischiare di rimanere sordo – è da stamattina che si comportano così. Ogni ingranaggio ha preso a funzionare ad un ritmo diverso da quello di tutti gli altri, così ognuno va avanti per proprio conto”.

Gianni decise che per mantenere l’integrità dei suoi timpani doveva assolutamente uscire al più presto da quel posto.

Cercò di salutare il commesso ma già quello si era rimesso al lavoro per cercare di bloccare le suonerie e comunque non lo avrebbe sentito lo stesso, per cui uscì in fretta dal negozio preoccupandosi di chiudere bene la porta dietro di sé.

Era tutto inutile, così facendo non sarebbe mai venuto a capo di nulla.

Non sarebbe servito a niente rivolgersi a qualche altro commerciante per cercare di capirci qualcosa, probabilmente erano tutti nelle stesse condizioni.

Continuò a camminare sconsolatamente cercando di pensare ad una soluzione che gli permettesse di venire fuori da quella babele temporale.

Continuando a camminare, senza quasi rendersene conto, si lasciò alle spalle il centro cittadino e cominciò a dirigersi verso la parte vecchia della città. Era talmente immerso nei suoi pensieri che non si rese conto di essere entrato in un vecchio quartiere che non aveva mai visto.

S’infilò in una viuzza sconnessa e strettissima.
Le pareti delle case, addossate l’una all’altra, impedivano quasi del tutto ai raggi del sole di penetrare, così che, nonostante fosse ancora pieno giorno , lì era quasi buio.

Girò l’angolo e si ritrovò di fronte ad una porticina piccola e contorta per l’umidità. Una finestra fungeva da vetrina ad un piccolo negozio e attraverso il vetro polveroso e ormai quasi del tutto opaco di intravedevano esposti alcuni vecchi orologi.

“E’ una vecchia bottega di orologiaio” si rese subito conto Gianni.

E senza pensarci oltre decise di entrare. Infilò la testa attraverso la porticina.

“E’ permesso?” chiese quasi in un sussurro.

Quell’aria pesante di polvere e di umidità, gli oggetti che dall’aspetto dovevano essere certo molto antichi, gli davano l’impressione di aver violato un luogo sacro.

“C’è nessuno?” si azzardò a chiedere con un tono un po’ più alto.

Da dietro il grosso bancone roso dai tarli che occupava quasi tutto lo spazio del piccolo locale, si affacciò la testa di un omino.

Sì, non si poteva definirlo in altro modo. Anzi, pareva quasi un folletto con i suoi capelli bianchissimi, i baffetti pure candidi e ordinati, gli occhietti piccoli e furbi – svegli per l’età che l’ometto dimostrava – e che guardavano da dietro le spesse lenti degli occhialini poggiati sulla punta del grosso naso.

Gianni ristette un attimo in silenzio. Non sapeva neppure lui che cosa lo aveva spinto ad entrare lì dentro e ora che c’era non era più in grado di formulare alcuna domanda.
Il vecchio orologiaio raddrizzò completamente la schiena e poggiò sul banco il cipollone che stava riparando e che nella sua minuscola mano appariva veramente enorme e guardò Gianni lanciandogli un’occhiata quasi compiaciuta da sopra le lenti degli occhiali che gli penzolavano dal naso.

Pareva quasi che si divertisse ad osservare il disagio del povero giovane che cercava invano le parole per spiegare il motivo che l’aveva spinto ad entrare lì dentro.
Il vecchietto sorrise.

“Credo di sapere perché lei si è rivolto a me, – gli disse – desidera sapere che cosa sta succedendo agli orologi di tutta la città e del mondo intero. Perché lei forse ancora non lo sa, ma lo stesso sta accadendo anche in tutto il resto del mondo”.

“Beh, sì. Veramente era proprio quello che ero venuto a chiederle” rispose quasi balbettando Gianni che ormai non sapeva più di che stupirsi.

“Vede, caro signore – disse il vecchio orologiaio – al giorno d’oggi la gente non sa far altro che correre avanti e indietro, prendere appuntamenti e darne in continuazione. E’ talmente abituata a servirsi del tempo che ha disimparato ad apprezzarlo pienamente. Non sa più calcolare il valore di una giornata, di un’ora, di un singolo minuto”.
“Ogni frazione del giorno – continuò l’anziano ometto – è stata svuotata di ogni significato e viene considerata solo perché in quella data ora si deve andare dal parrucchiere o c’è il notaio che aspetta per una firma o ancora perché non presentarsi in orario in quel dato posto ci può far perdere del denaro. Anche gli orologi, che sono stati creati per aprire gli occhi degli uomini sul valore del tempo, perché fosse quasi possibile vederlo, maneggiarlo, insomma, perché diventasse parte concreta della vita delle persone, da figli del tempo quali erano, sono ora diventati aridi strumenti nelle mani dell’uomo che se ne serve per condurre una vita senza senso”.

L’ometto fece una breve pausa di silenzio, poi continuò.

“Come un qualsiasi altro oggetto, frutto e strumento della vanità del mondo, gli orologi sono stati abbelliti, infiocchettati, colorati, ingranditi, rimpiccioliti. Ridicolizzati, insomma.
Sono diventati oggetti da mostra. Vengono mostrati con vanità al polso, al collo, alle dita delle mani, vengono persino portati alle orecchie, dove più che in qualunque altra situazione stanno a dimostrare come sia andato perduto il loro vero significato e abbandonato il loro vero scopo. Si è, dunque, fatto di un oggetto dall’enorme valore un vero e proprio pezzo da baraccone.

E così gli orologi, questi fedeli figli del Tempo, hanno deciso di ribellarsi, non vogliono più farsi complici di queste vuote esistenze ma tornare ad aiutare il loro Padre a recuperare il vero significato del Tempo”.

Gianni guardò il vecchietto un po’ perplesso.

In effetti, quell’ometto non aveva tutti i torti. Anche lui per prima cosa si era preoccupato di come avrebbe fatto con tutti i suoi impegni. Non aveva pensato nemmeno per un minuto a quello che avrebbe perso se non ci fosse stato più modo di disporre del tempo come di un bene concreto.

“Lei ha ragione signor orologiaio – disse timoroso – ma come farà la gente d’ora in poi?”.

“Non si preoccupi – rispose di rimando il vecchietto con tono comprensivo – non c’è da aspettarsi che le persone capiscano subito. Anzi, c’è il pericolo che, mantenendo questo stato di cose troppo a lungo, il popolo, esacerbato, se la prenda ancora di più e trovi in breve tempo un altro sistema per maltrattare questo grande bene. Tanto si sa che se le vie del Signore sono infinite, quelle del male e dell’ignoranza lo sono almeno altrettanto.

State, quindi, tranquilli. Le cose torneranno normali al più presto e la gente penserà solo che sia stata colpa di una qualche cometa di passaggio, come fa sempre quando non sa come spiegare razionalmente qualcosa”.

“Grazie a questo piccolo scherzetto, però, - continuò l’orologiaio – almeno per una volta ci si sarà soffermati a pensare un po’ a come siamo abituati a trattare le nostre esistenze e le leggi che le regolano e non è detto che alla fine non sarà servito a qualcosa di buono. Dopotutto l’uomo nel suo profondo è un buon diavolo e bisogna dimostrargli un po’ di fiducia ogni tanto”.

Così dicendo sparì nuovamente dietro il bancone polveroso e Gianni capì che il tempo delle spiegazioni era terminato ed era giunto il momento di tornare a casa.

Fuori si era fatto ormai buio e la sera, a quel punto, era veramente arrivata.
Gianni si affrettò lungo le viuzze con una sicurezza che non seppe a cosa attribuire visto che non era mai stato in quella parte della città prima di allora. Ma le cose strane in quella lunga giornata erano state tante e tali che decise di non porsi più domande e di filare dritto a casa.

Appena superata la porta d’ingresso, infatti, si liberò in fretta dei vestiti e si infilò subito sotto le coperte.

Il mattino dopo la sveglia suonò puntualissima alle sette, proprio come aveva sempre fatto, tanto che Gianni, ancora qualche minuto dopo essersi svegliato, si stava ancora chiedendo se per caso tutta quella faccenda del giorno prima non fosse stato solo frutto della sua immaginazione. Ad ogni modo decise di alzarsi per non rischiare di fare davvero tardi in ufficio.

Prima di dirigersi verso il bagno allungò la mano verso lo stereo che stava sul comodino e sintonizzò le onde della radio sulla frequenza del radiogiornale del mattino.

“… Pare, quindi, - gracchiò l’apparecchio – che la causa sia da ricercarsi nelle variazioni delle onde elettromagnetiche dovute al passaggio di una cometa rasente l’atmosfera terrestre che avrebbe provocato una grave alterazione nel funzionamento di tutti gli apparecchi di misurazione del tempo. Siamo, comunque, felici di comunicare al mondo intero che si è trattato di un fenomeno passeggero e che già a partire da questa mattina tutto appare tornato alla normalità”.

Gianni fermò a mezz’aria il rasoio con il quale stava cercando di domare la sua ispida barba mattuttina.

Allora era tutto vero. Era successo veramente.

E dai ricordi del giorno precedente gli parve di scorgere il volto del vecchio orologiaio che da dietro l’enorme bancone polveroso gli faceva l’occhietto.

sabato 7 giugno 2008

Il treno delle scimmie





Il signor Taldeitali era un omino molto pignolo.
Ogni sera, prima di andare a dormire, preparava con cura i vestiti che avrebbe indossato il mattino successivo: la camicia pulita, i pantaloni stirati, le scarpe accuratamente lucidate, i calzini colorati in sintonia con la cravatta.
Ogni mattina, poi, voleva trovare sulla tavola ben apparecchiata la sua solita tazza di caffè con i soliti due cucchiaini di zucchero, il pane tostato al punto giusto e il succo di arance che non dovevano essere né troppo rosse né troppo gialle.
Quindi, raccoglieva con cura tutte le sua carte e le infilava, stando ben attendo a non spiegazzare i fogli, nella cartella da lavoro.
Era, insomma, il nostro signor Taldeitali, un uomo molto preciso che amava che ogni cosa fosse al suo posto e che ci fosse sempre un posto per ogni cosa.
Per la signora Tilde, che si occupava di lui, era una vera impresa riuscire ogni volta ad accontentarlo poiché trovava sempre qualcosa che non andava bene.
Anche quel giorno, come tutte le mattine, il signor Taldeitali si avviò verso la stazione dei treni e lì aspettò l’arrivo dell’espresso che lo avrebbe portato in città dove si trovava il suo ufficio.
Dopo circa dieci minuti il treno arrivò.
Il signor Taldeitali salì e prese posto, quindi abbassò il cappello sugli occhi e si appisolò.
Anche se era un omino molto compito e che ci teneva molto a fare bella figura con il prossimo, non riusciva ad evitare di mettersi a russare – anche se molto compitamente – e così accadde anche quella volta.
Non durò, però, a lungo perché dopo pochi minuti qualcuno gli battè su una spalle.
“Ah, già il biglietto” pensò il signor Taldeitali aprendo gli occhi.
Abbiamo già detto quanto il nostro amico tenesse a che tutto fosse sempre in ordine e in perfetta armonia. Possiamo, quindi, immaginare il suo stupore quando si trovò di fronte, anziché al solito bigliettaio, una scimmia.
A dire il vero la scimmia era proprio il bigliettaio e come un bigliettaio era vestita di tutto punto.
Aveva la sua bella divisa, il berrettino regolamentare, persino la macchinetta per annullare i biglietti dei viaggiatori. Però, era pur sempre una scimmia!
“Biglietto, signore” disse molto educatamente la scimmia rivolgendosi al nostro amico.
Il signor Taldeitali era veramente stupefatto.
“Ma lei è una scimmia!” disse quasi con disgusto.
Certo, al nostro omino doveva apparire davvero terribile il fatto che un animale come quello si trovasse a bordo del treno.
Chissà quanto era sporco e quanti danni sarebbe stato in grado di provocare se solo gli fosse passato per la testa di cominciare a saltare sui sedili, arrampicarsi sulle tende dello scompartimento oppure – orrore! – mettersi a sedere sulle ginocchia dei passeggeri.
“Ma certo signore che sono una scimmia, che cosa credeva?” chiese di rimando l’animale stupito dello stupore del passeggero. “Ma è terribile!” gridò il signor Taldeitali angosciato.
“Oh bella? Ma si è mai guardato allo specchio lei la mattina? E comunque, bando a queste discriminazioni di razza e mi faccia vedere il suo biglietto” disse la scimmia-bigliettaio.
“Come si permette? Non accetto ordini da una scimmia!” gridò l’omino ormai isterico.
“E dagli! Senta, se sta facendo tutte queste storie solo perché non è in regola con il pagamento, non c’è problema – disse la scimmia cercando di essere conciliante – basta aggiungere la differenza e siamo a posto. Qui non è mai stato morso nessuno perché era senza biglietto”.
“Aah! – gridò terrorizzato il signor Taldeitali, sconvolto al solo pensiero di essere anche solo toccato dall’immondo animale – per sua norma e regola in tanti anni non mi è mai capitato di salire su di un mezzo pubblico sprovvisto di regolare biglietto”.
Ormai l’irreprensibile ometto era al colmo dell’indignazione “E adesso mi faccia parlare con il capotreno” urlò.
Così dicendo si appese con tutte le sue forze al freno d’emergenza. Il treno si bloccò bruscamente con uno stridìo infernale e un terribile rumore di ferro e catenacci.
Per il contraccolpo il signor Taldeitali fu catapultato sul fondo dello scompartimento.
Stava ancora constatando con orrore che gli si era sgualcito tutto il vestito quando, alzando lo sguardo, si vide circondato da decine di sguardi – questo sarebbe stato niente – se non che quegli sguardi curiosi e indagatori appartenevano tutti a delle scimmie.
Ma come? Non bastava il bigliettaio-scimmia? Adesso c’erano anche i viaggiatori-scimmia. E pure il capotreno apparteneva a quell’orribile specie…
“Ma insomma, che sta succedendo?” gridò il signor Taldeitali ormai al limite di una crisi di pianto.
“Scusi signore, ma dov’è il problema?” chiese il più gentilmente possibile il capotreno, timoroso di turbare lo stato già visibilmente alterato del viaggiatore.
“Qual è il problema, dite? Questa mattina ho preso il treno come tutti i giorni per andare a lavorare e mi sono trovato di fronte una scimmia che mi chiedeva il biglietto. Sono stato accusato di non avere regolarmente pagato, mi sono sgualcito tutto il vestito e adesso non so proprio come farò a presentarmi in ufficio. Ora chiamo il capotreno per riuscire a capirci qualcosa e mi trovo circondato da un’orda di scimmie. Non so dove mi trovo, né che ci faccio qui e lei ha il coraggio di chiedermi dove sta il problema?”
“Mi scusi tanto signore. Ma è stato lei a salire su questa vettura. Non è forse diretto a Monkeyland?” chiese paziente il capotreno.
“No davvero! – rispose indignato il signor Taldeitali – io stavo andando in città a lavorare e non so nemmeno dove si trovi questo strano posto che voi dite”.
Il capotreno e il bigliettaio si guardarono per un attimo negli occhi.
“Oh no! – disse alla fine uno dei due – è capitato di nuovo!”.
“Cosa è capitato di nuovo se è lecito saperlo?” chiese ormai sfinito il signor Taldeitali.
“Vede, noi apparteniamo ad una dimensione che sta al di là del muro dello spazio che separa il vostro pianeta dal resto delle possibili realtà e ogni tanto, per un qualche errore degli strumenti, ci capita di superare questo muro e di finire sulla terra. Questa mattina è capitato di nuovo, così lei è salito qui pensando si trattasse del suo solito treno. Ci dispiace molto signore” disse il capotreno evidentemente mortificato.
“Comunque, non si preoccupi – aggiunse il bigliettaio – ora provvederemo subito a riportarla nella sua dimensione”.
E così fecero e in un battibaleno il signor Taldeitali si ritrovò nella piccola stazione del suo paese ad aspettare il treno giusto.
Non aveva nemmeno perso tempo perché nella dimensione in cui era stato non si misuravano le ore e i minuti come sulla terra.
Il signor Taldeitali si sedette su una panchina.
“Che giornata terribile! Eppoi guarda come mi sono conciato” esclamò. Così dicendo tirò fuori da una tasca interna della giacca uno spazzolino e, ormai tranquillizzato, si mise a sistemarsi per bene il vestito.

venerdì 6 giugno 2008

La fine del viaggio



Montagne. Valli. Pianure.
E poi ancora fiumi e valli e di nuovo le pianure.
E sopra a tutto il ghiaccio. Quell’infinita distesa vetrosa e baluginante.
Mano rapace che ingloba tra i suoi artigli tutto ciò che incontra sul suo cammino.
Avide dita di cristallina cupidigia capaci di strappare e divellere e lacerare e rompere.
Di separare e smembrare e spaccare.
E poi trascinare e spingere e portare lontano.
Era iniziato così. Così si era allontanato dalla sua terra natìa. Da quelle montagne di maestosa imponenza tra cui era nato. Così era cominciato il suo lungo viaggio.
E così le montagne e le valli e le pianure. E poi ancora i fiumi e le valli e le pianure.
E quei lunghi interminabili cammini e le corse che lo precipitavano giù da ripide discese e le tradotte attraverso il turbinìo delle correnti.
E a circondarlo le acque del mare. Tanto, sconfinato mare. Immensa superficie di cristallina trasparenza, bacino di infinita solitudine e di inestinguibili silenzi che lo accoglieva nel suo eterno abbraccio. Infinita distesa vetrosa e baluginante che ingloba tutto ciò che incontra sul suo cammino. Capace di prenderti nel suo abbraccio. E di trascinare e spingere. E di portare lontano.
Così era arrivato a quelle sponde. In parte trascinato dalle correnti, in parte nuotando nell’acqua gelida, aggredito dalla fame e dalla stanchezza. Fino a quando aveva intravisto la terraferma, le coste di un luogo tanto lontano da casa, ma in cui avrebbe potuto trovare ristoro.
Qualcosa da mangiare. Un rifugio.
Ma ad attenderlo, oltre quella coltre di nebbia che tutto avvolgeva, soltanto i fucili puntanti. Tanti. Troppi per riuscire a scappare. E poi c’era la stanchezza. Quell’immensa stanchezza che ormai si era impossessata di lui e gli impediva di correre, di provare a nascondersi. E dove poi? Ovunque non c’erano che rocce e brughiera. E dietro soltanto il mare. Tanto, troppo mare.
Così l'orso si fermò, liberando nel vuoto aperto alle sue spalle lo sguardo perso in orizzonti di libertà. Gli occhi puntati su paesaggi lontani, a farsi spazio tra i ricordi di un’infanzia libera e felice consumata tra le distese sconfinate dei ghiacci della Groenlandia. E spararono i fucili. E spararono ancora. Lasciando, senza emozione alcuna, la loro firma di sangue su questo nuovo crimine della stupidità umana.

giovedì 5 giugno 2008

C'è vita nell'Universo?


http://magazine.excite.it/news/9485/MOA2007BGL192Lb-il-pianeta-come-la-Terra

La scoperta era di quelle destinate a fare notizia e, infatti, su tutti i principali giornali del mondo quella mattina i titoli più grossi erano destinati a lui.
Il pianeta noto come MOA-2007-BGL-192Lb, rintracciato da due scienziati dell’Università di Manchester e di Notre Dame scandagliando dall’alto del Mount John Observatoty in Nuova Zelanda l’immensità celeste, era talmente simile alla Terra per dimensioni e natura, da lasciare spazio alla possibilità di potervi trovare vita altra rispetto a quella terrestre.
A rinforzare le speranze di individuarvi una qualche forma vivente, era la presenza, nelle sue vicinanze, di una piccola stella, troppo debole per annientare un qualche possibile essere con fasci di radiazioni come quelli provenienti dalle più grandi e potenti pulsar, ma dotata di una quantità di energia sufficiente se aggiunta ad altre forme di calore, quale poteva essere quella proveniente dal nucleo del pianeta stesso.

Intanto, su MOA-2007-BGL-192Lb cresceva l’eccitazione. Due noti scienziati avevano appena individuato nell’immensità della calotta celeste un pianeta talmente simile al loro, per dimensione e natura, da lasciare spazio alla possibilità di potervi trovare vita altra rispetto a quella Moaiana.
A rinforzare le speranze di scoprirvi una qualche forma vivente, era la presenza, nelle sue vicinanze, di una stella grande a sufficienza e posizionata ad una distanza adeguata per rifornire il pianeta di energia sufficiente a consentirvi lo sviluppo di una qualche forma vivente.

Si trattava ora di affinare strumenti e mezzi d’indagine per arrivare a saperne qualcosa di più.

“Troppo complicato e costoso – disse Nicholas al collega David – meglio concentrarsi su qualcosa di più realistico”.

“E poi chi ci dice che ci sia davvero vita lassù? – chiese MOAx a MOAy con fare dubbioso – Te l’immagini? Altri esseri intelligenti?”.
“Naaaa! – rispose di rimando MOAy ancor meno convinto –. Che immaginazione!”.